Letteratura latina _28:Si vis pacem para bellum

Letteratura latina _28

Posted by Massimo Meridio On martedì 27 marzo 2012 0 commenti

La satira dell’indinatio:

La fase più importante della poetica di Giovenale è rappresentata dall’idignatio. Lo sdegno del poeta verso la corruzione della società in cui vive trapela dai suoi scritti e questi hanno il compito di suscitare l’indignazione nel pubblico. Il personaggio satirico è proprio un gentiluomo indignato. Giovenale nasconde quasi ogni aspetto della sua personalità. Giovenale nelle prime sette satire muove un’aspra critica contro i principali aspetti negativi della società contemporanea denunciandone la corruzione. Come punto di riferimento fondamentale per questa critica, Giovenale utilizza il mos maiorum. Tiene un continuo confronto tra antichità e modernità. Il tema della divitia è ricorrente nella poesia di Giovenale: nella tradizione il possesso di beni di fortuna era di per sé insignificante, mentre era importantissimo il disprezzo delle ricchezze; dunque si può dire che il ricco era sostanzialmente povero e che il povero realmente ricco in quanto autosufficiente. La ricchezza infatti è rilevante per spiegare i comportamenti negativi in quanto induce chi la possiede comportamenti corrotti di avarizia e smania di ricchezza. I divites appaiono come persone potenti, immeritevoli e ingiusti detentori di patrimoni che derivano da attività indegne, immorsali e in alcuni casi delittuose. In questo contesto assume grande importanza il tema della clientela molto vicino al poeta stesso. Infatti nella I satira descrive la giornata “tipo” del cliente umiliante, dalla salutatio mattutino fino alla delusione del mancato invito a cena. Nella III satira invece da voce direttamente ad un cliente, Umbricio, che sottolinea la corruzione della vita di Roma e dal quale trapela anche l’avversione del poeta per i Greci e gli orientali, dettata dalla convinzione che la cultura ellenica abbia rovinato il mos maiorum. Nella V satira rappresenta la cena di un cliente a casa di un patrono, Virrone, nel quale il cliente viene attaccato per la mancanza di dignità che lo spinge ad accettare ogni tipo di umiliazione in cambio di un invito a cena. Virrone beve in calici preziosi vini prelibati, mentre a Trebio, i cliente, viene servito un vinaccio in bicchieri da poco prezzo; Virrone mangia un aragosta, mentre a Trebio viene servito un gambero; a Virrone vengono servite pietanze prelibate, mentre a Trebio funghi velenosi. Tutto ciò esprime l’idea di una ricchezza volta a diventare uno strumento di ingiustizia e discriminazione. Nella IV satira attacca la corte imperiale raccontando di un rombo donato a Domiziano, il quale, date le dimensione del pesce e non sapendo come cucinarlo perché non aveva una padella tanto grande, indisse una assemblea per risolvere il dilemma. Nella II e VI satira tocca i punti importanti dei mos romani. La II si scaglia contro l’omosessualità maschile vista come grave vizio e come tradimento dell’ideale di fierezza virile trasmessa dagli antenati. Nella VI satira, la più lunga, volge un feroce attacco alle donne, in particolare prende in esame Messalina che viene detta “Imperia meretrice”, che di notte lasciava il palazzo e si recava in una stanza per soddisfare i suoi bisogni carnali. All’immoralità femminile non si può porre rimedio, la lussuria, la prepotenza derivata dalla ricchezza, la superbia, l’autoritarismo, la mascolinità, le tendenze delittuose, la propensione verso i filtri e i veleni rendono la donna insopportabile per il marito. La donna dunque viene contrapposta alla matrona romana dell’antichità ligia al suo dovere i moglie e di madre. Nella VII satira Giovenale denuncia le condizioni precarie i cui si trovano poeti, avvocati storici e retori aggravati dalla meschinità e l’avarizia dei ricchi.

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